Curiosità

Dell’eruzione catastrofica del Vesuvio del 79 d. C., vengono rinvenute, ad Ercolano, 7 proteine cerebrali vetrificate

Un’eruzione vulcanica, di un vulcano di media dimensione, può sprigionare nell’atmosfera tanta di quella anidride carbonica da superare quella emessa dalla combustione causata dall’Homo sapiens dalla rivoluzione industriale ad oggi. Ecco perché i vulcanologi, in particolare, non concordano con l’ecocatastrofismo di moda ecologica superficiale, la cui bandiera è stata data in mano ad una sedicenne svedese, che riempie le piazze.

Quando frequentavo l’Università di Napoli ed il corso di Vulcanologia con il prof. Lorenzo Casertano (luminare che divulgava la vulcanologia scrivendo anche nella pagina scientifica del Corriere della Sera) appresi molto del Vesuvio, ma anche di altri vulcani come il Cracatoa sul quale redassi la tesi di previsione vulcanica, innovativa ancora oggi. Dalle falde del Vesuvio continuano le scoperte di resti fossili risalenti al 79 d. C., quando vi fu l’eruzione del Vesuvio ben descritta da Plinio il Giovane, nipote del comandante della flotta romana che da Capo Miseno accorreva ad Ercolano, pare per soccorrere una ricca amica di Plinio il Vecchio, che morì asfissiato, mentre il nipote fece avere a Tacito la descrizione naturalistica della catastrofica eruzione e rese famoso il Vesuvio in tutto il vasto impero di Roma.

Il Vesuvio prima di quell’eruzione era alto circa 3 mila metri, oggi è di 1270 metri, ne deriva che circa 1930 metri di montagna sono stati eruttati e ricaduti in fluido fangoso sulla patrizia Ercolano, sulla popolare Pompei, Oplonti, Stabiae, ecc.

Da poco tempo sono stati pubblicati su New England Journal of Medicine, prestigiosa rivista medica leader a livello mondiale, i risultati di uno studio condotto dal team di antropologi e ricercatori guidato da P. P. Petrone antropologo forense dell’Università Federico II di Napoli, sulla scoperta di resti di materiale cerebrale proveniente da una vittima ritrovata nel Collegio degli Augustali ad Ercolano.

Gli studi di proteomica eseguiti dai ricercatori del CEINGE-Biotecnologie avanzate di Napoli, guidati dal professor Piero Pucci, coordinatore del laboratorio di Proteomica CEINGE e ordinario di Chimica Biologica dell’Università degli Studi di Napoli Federico II, hanno infatti permesso di identificare il campione vetrificato come tessuto cerebrale.

Nel 79 d.C. Pompei ed Ercolano furono colpite da valanghe di cenere bollente che uccisero all’istante tutti i loro abitanti. L’eruzione in poche ore seppellì l’intera area vesuviana fino a 20 km di distanza dal vulcano. Negli anni ’60, durante gli scavi condotti nel Collegio degli Augustali ad Ercolano, nella cenere vulcanica furono rinvenuti all’interno di un letto ligneo i resti carbonizzati di un uomo, che si ritiene fosse il custode del collegio consacrato al culto dell’imperatore Augusto.

L’ipotesi degli studiosi è che l’alta temperatura sia stata in grado di bruciare il grasso e i tessuti corporei, in modo simile a quanto documentato per le vittime dei bombardamenti di Dresda ed Amburgo durante la Seconda Guerra Mondiale. La conservazione di tessuto cerebrale umano antico è un evento estremamente raro, ma è la prima volta in assoluto che vengono scoperti resti umani di cervello vetrificati per effetto del calore prodotto nel corso di un’eruzione vulcanica», sottolinea P. P. Petrone.

Come le resine conservano molti resti fossili viventi (vedi nel film Giurassic Park dove il DNA era stato conservato) così l’ossidiana o vetro pietrificato può conservare le proteine dei neuroni rinvenute e classificate per il resto fossile rinvenuto ad Ercolano. «Le nostre analisi hanno evidenziato la presenza di acidi grassi tipici dei capelli e di proteine specifiche del cervello – spiega P. Pucci-. Questi dati hanno premesso di identificare in modo inequivocabile il campione come proveniente dal cervello della vittima». Lo studio è stato eseguito dai gruppi di ricerca dell’antropologo P. P. Petrone, M. Niola docente del Dipartimento di Scienze Biomediche Avanzate dell’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, da P. Pucci del CEINGE-Biotecnologie avanzate di Napoli), in collaborazione con il Parco Archeologico di Ercolano e l’Università di Cambridge.

L’Italia è ricca di reperti archeologici di storia sociale, ma relativamente povera, per mancanza i studiosi, di reperti di storia naturale, ma il reperto di Ercolano unisce le due anime della ricerca e le amplifica per l’impotanza dell’avanzamento dei saperi scientifici ed umanistici. Il custode del Collegio degli Augustali non ebbe scampo. Lo straordinario ritrovamento svela indizi preziosi sull’eruzione del Vesuvio del 79 d. C.. “Calore improvviso e di breve durata, una morte istantanea”. Lo studio sul New England Journal of Medicine.

I minuscoli frammenti di cervello, non solo carbonizzato come il resto del corpo, ma vetrificato dallo shock termico che non gli ha lasciato scampo, sono ancora lì. Dormiva, probabilmente, il custode del Collegio degli Augustali di Ercolano, quando l’onda di calore, la nube densa di cenere e lapilli rotolata dai fianchi del Vesuvio ha avvolto il suo corpo, nel letto che si trovava dentro l’edificio ormai vuoto. Era rimasto solo lui, e forse non si è accorto di nulla, quando il suo cranio è esploso.

Tra i resti carbonizzati di duemila anni fa, per la prima volta sono stati rinvenuti i resti di materia cerebrale diventata come vetro. La scoperta è l’oggetto di un articolo pubblicato sul prestigioso New England Journal of Medicine, firmato dall’antropologo P.P. Petrone, del Laboratorio di Osteobiologia umana e Antropologia forense del Dipartimento di Scienze biomediche avanzate dell’Università di Napoli. Secondo Petrone si tratta della prima volta, in assoluto in contesto archeologico, nella letteratura antropologica e di medicina legale, che resti di materia cerebrale vengono trovati conservati in questo modo, a causa di un’eruzione vulcanica: “Mi sono accorto che qualcosa brillava nella cenere, tra i resti del cranio esploso – ricorda Petrone – erano frammenti vitrei di colore nero, come ossidiana ma molto friabili. Abbiamo prelevato alcuni campioni: l’analisi proteomica ha evidenziato acidi grassi, trigliceridi e capelli umani. Non poteva essere altro che cervello”.

Le prove di questa dinamica sono state trovate anche nel legno carbonizzato dello stesso Collegium: “Questo suggerisce che l’estremo calore radiante sia stato in grado di incendiare il grasso corporeo e vaporizzare i tessuti molli” scrivono i ricercatori nel paper firmato, oltre che da Petrone, dal prof. M. Niola dell’Università di Napoli Federico II, dal professor P. Pucci del Ceinge Biotecnologie avanzate e in collaborazione con altri ricercatori italiani e inglesi, tra cui F. Sirano, direttore del Parco archeologico di Ercolano.

M. Marini su le Scienze scrive:”Vesuvio, shock termico e devastazione: ricostruiti gli effetti dell’eruzione”. In pochi secondi l’aria diventò un altoforno e il cranio del povero custode scoppiò andando in frantumi. “La morte è stata istantanea. È stato trovato sul letto supino, probabilmente stava dormendo” conclude Petrone. Un monito, secondo gli studiosi, per i tre milioni che abitano a Napoli e nella zona tutta attorno alle pendici del Vesuvio.

Un gigante che dorme e che può scatenare l’inferno in pochi istanti. Petrone e i colleghi hanno inviato i risultati delle indagini alla rivista americana, che ha però chiesto ulteriori approfondimenti: “Erano abbastanza convinti ma hanno sottolineato che quei tipi di grassi potevano indicare anche tessuti animali o vegetali.

Poi sono state analizzate 7 proteine cerebrali “ossidianizzate”. Non c’erano animali o vegetali in quella stanza, ma abbiamo fatto altre analisi e abbiamo trovato sette proteine altamente rappresentate nel tessuto del cervello umano”, sottolinea Petrone. A quel punto, non c’erano più dubbi. Le fragili scaglie rimaste dal cranio esploso sono resti incoerenti di quello che circa due millenni fa era un essere umano pensante.

Forse sognava, nel suo letto, quando il cataclisma lo ha avvolto. Ma il processo fisico di vetrificazione è un indizio che ha registrato in qualche modo ciò che è avvenuto in quei momenti. Calore improvviso, fulminante: “È fondamentale dal punto di vista della ricostruzione dell’evento vulcanico – aggiunge Petrone – la vetrificazione è un effetto dell’esposizione molto breve ad alta temperatura. Parliamo di un range molto specifico, tra i 370 e i 520 gradi centigradi”.

Poi un rapido calo di temperatura. È il corpo umano che, di nuovo, si fa testimone, attraverso la sua stessa distruzione, di una sequenza di eventi, come un archivio. Ma il processo fisico di vetrificazione è un indizio che ha registrato in qualche modo ciò che è avvenuto in quei momenti.


Giuseppe Pace (Naturalista con tesi di Vulcanologia all’Università “Federico II” di Napoli)


 

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